Dentro la casetta di legno, anche se non ancora dentro la banja vera e propria, dopo pochi piacevoli attimi, il troppo caldo velocemente diventava fastidioso.
Sebbene molto irriggidito mi spoglio rapidamente, rimanendo in magliettina. Mi dò un'occhiata intorno.
Sulla mia destra, un appendiabiti e sotto una scarpiera con infilate dentro varie paia di ciabatte di diverse misure e colori. Per quanto mi riguarda – rimango scalzo. Non troppo avanti una porta semisocchiusa lascia intravedere un'altra stanza, un piccolo spogliatoio, con asciugamani e lenzuola pulite e un cesto per la roba sporca, da cui si accede a quella che io chiamo „camera di primo raffreddamento”, quella di secondo essendo il mondo esterno.
Il pavimento qui è formato da assi di legno leggermente distanziate fra loro, l'acqua della doccia potendo così direttamente finire sul terreno sottostante, emanante un certo freddo contrastato però abbondantemente dalla prossimità del forno acceso della banja.
Oltre alla doccia (un tubo da cui girando una valvola si può far uscire dell'acqua) ci sono dei secchi in metallo, di cui uno appeso in alto alla parete, riempibile all'occorrenza di acqua gelida tramite un rubinetto nelle prossimità e rovesciabile comodamente sulla propria testa per mezzo di una corda. In un altro secchiello ci sono rami secchi di betulla, altri due o tre sono vuoti.
Dalla camera „di primo raffreddamento” si accede finalmente alla banja. Alla mia sinistra invece è un salotto: un divano e credo vi fosse anche un televisore. Poi al centro un tavolo abbastanza grande, per otto o dieci persone, delle sedie ed infine una piccola cucina. Nell'angolo, accanto al divano, un lettino per massaggi, di quelli portabili, smontato.
Dipinti del lago senza alcun valore ed una riproduzione di un Roerich ci osservano dalle pareti.
Sul tavolo ci sono dei cetrioli in salamoia, del salo speziato con abbondante aglio, pane nero e, sovrana, una bottiglia di vodka, la cui forma rassomigliante un fallo eretto non tragga in inganno, giacché si tratta solo del contenitore: non c'è simbolo più loquace per rappresentare la neoprimitiva ginecocrazia odierna. Mi immagino l'etichetta: liquido solvente, versare un po' di volontà e lasciare a macerare per quindici minuti a temperatura né calda né fredda; la dissoluzione è servita, bere, se possibile, tutto d'un fiato. In cucina bolle un samovar.
Mi viene in mente un quadro di epoca sovietica nella mia cameretta sull'isola Vasilevskij, a San Pietroburgo, dove mi rinchiusi per un mesetto anni addietro.
Vi è rappresentata questa scena: ad un signore distinto viene offerto un bicchierino di vodka e lui scansandolo con un gesto netto della mano e del braccio risponde: niet.
Ad un'occhiata più attenta, quasi il ricordo del distinto signore li avesse disintegrati, mi accorgo che non vi è nulla di tutto ciò: niente salo, niente vodka, niente samovar.
Sul tavolo c'è solo qualche porzione monouso di miele, di marche differenti, e due tazze sporche del tè del giorno prima.
Accendo il bollitore elettrico.
« Vuoi? »
« Davaj! »
Lo spengo poco prima che bolla l'acqua, che verso nelle tazze, avendo cura almeno di cambiare prima le foglie. Ci sediamo.
Secondo la saggezza estremo orientale pare che si possa arrivare all'illuminazione semplicemente imparando ad eseguire alla perfezione il rituale della preparazione del tè. La cosa, chissà perché, mi dà in quel momento da pensare.
« Hai trovato l'incenso e le candele? »
L. sorride felice, togliendosi degli oggetti dalle tasche per mostrarmeli. Li appoggia sul tavolo ed io li raccolgo.
Il sole fuori è scomparso. Attorno a noi il silenzio discretamente sussurra inni alla grandezza: mi ricordo di qualcosa di importante.
Spengo la luce, nella sala è buio totale, accendo l'incenso e qualche candela. Respiro a pieni polmoni l'aria profumata e umida.
Il forno è ormai acceso da un po' e forse ci si potrebbe far la sauna dal divano.
« Andiamo? »
« Poshli! »
Nudo fuori dalla casa osservo il fumo che si innalza dal mio corpo accaldato. Lo seguo con lo sguardo, fino a trovarmi faccia a faccia con un meraviglioso cielo stellato.
« Scendi pure, in questo momento sono un Tuo pari. »
Così vado vaneggiando per un minuto abbondante.
LA PICCOLA MORTE
...Ti faranno fumare / per farti sognare che / il futuro od un „messia” / presto tutto cambierà. / Ed avrai come vanto / una nuova condanna / ti diranno che il vento è / il respiro di una donna / per far sì che un lamento, uno solo / copra ogni tormento di un velo. / Ma se tu rifiuterai / di giocare all'attore / forse un libro scriverai / come libero autore. / E tu forse parlerai / di orizzonti più vasti...” [L. Battisti]
Ieri notte ho fatto un sogno. Mi trovavo ad una festa che durava Dio sa da quanto tempo, chi beveva, chi conversava. Non c'era allegria, anzi direi che si continuasse stancamente a festeggiare per inerzia. Del resto, non so nemmeno che cosa si festeggiasse, può darsi che io fossi un imbucato? E perché mai, poi? Non ricordo, però ad un certo punto qualcuno mi si è avvicinato e mi ha informato che in un'altra stanza un Santo moriva a causa di gravissime ferite e mi intimava di andarlo a visitare, prima che fosse stato tardi. Conoscevo questo Santo di nome, le sue opere l'avevano reso una persona molto conosciuta anche in ambito profano, del resto a me risultava fosse già morta da un pezzo, ma si sa che i sogni a volte seguono delle logiche particolari. Non mi conosce nemmeno – pensavo – perché dovrei importunarlo in un momento come questo? Capivo però di ragionare in maniera miope e ben presto mi sono persuaso della necessità di fargli visita all'istante. Troverò qualcosa da dirgli, mostrerò il mio sincero dispiacere per la sua sorte e lo pregherò di insegnarmi qualcosa – così ragionavo, facendomi coraggio.
Nel frattempo il mio informatore era scomparso, cosicché ho iniziato la ricerca di quella stanza da solo. Girovagavo con l'impressione di essere sempre vicino, in realtà mai arrivavo. Curiosando per l'ambiente circostante, mi distraevo continuamente e il posto assumeva sempre più le sembianze di un labirinto. Ad un certo punto, lungo il corridoio, alla mia sinistra, una porta aperta: una taverna. Ho deciso di entrare, per chiedere indicazioni, ma il posto era deserto, le sedie sul tavolo davano l'impressione che si aveva sbaraccato, dimenticandosi forse di chiudere. Solo, uscendo, ho udito dei rumori, forse di stoviglie, provenire dalla cucina, ma avevo deciso a questo punto di non disturbare. Proseguivo quindi le ricerche, mi trovavo a quanto pare in un edificio immenso. Qualcuno finalmente si offriva di accompagnarmi. Camminavo dietro questo sconosciuto quando, passando accanto ad una stanza, ho sentito una musica che mi sembrava di conoscere fin troppo bene, colpi venivano dati ritmicamente, veloci e decisi, a far da sottofondo a miagolii osceni. Ricordo bene di aver qui sorriso come un bambino. Passando oltre, finivamo con il ritrovarci, seguendo il corridoio, accanto alla stessa stanza, solo dalla parte opposta. Accortomi di una fessura nel muro, volevo sbirciare ma la mobilia faceva ostruzionismo. Una domanda amletica mi tormentava: è bella o non è bella?
Quando questo assillo si è quietato nella mia mente, mi sono accorto che la guida era scomparsa. Idiota! - mi sono detto, mettendomi a correre e raggiungendo velocemente un punto in cui il corridoio si divideva in tre. Tre porte davanti a me si richiudevano in quell'istante, come se proprio in quel momento qualcuno, per ciascuna delle tre porte, fosse passato oltre. Ne ho aperta una, ma non si vedeva più nessuno. Proseguendo, oramai senza fretta, sono arrivato in un ufficio, un archivio. C'erano raccoglitori ordinatissimi e tutti ben etichettati sugli scaffali, e anche ve ne erano di impilati sulle scrivanie, pieni di documenti, e altri aperti, come se qualcuno stesse facendo delle ricerche. L'ufficio era vuoto. Mi sono soffermato su una scrivania per studiare i raccoglitori; erano in perfette condizioni, sebbene pieni non contenevano ciascuno un foglio di troppo, avevano l'aria di essere stati maneggiati diverse volte, ma da mani molto delicate. Osservando poi la calligrafia sulle etichette mi sono convinto in maniera inequivocabile che poteva trattarsi solo di una donna. Mi sono messo così a fantasticare sul volto di questa archivista, e tanto più mi sforzavo, tanto più mi accorgevo che il Santo svaniva, la presenza che avevo avvertito costantemente fino ad ora si faceva sempre più flebile, capivo anche che stavo per svegliarmi e che ormai era tutto perduto.
Sdraiato sul divano, richiudendo gli occhi, devo aver pensato di meritare una medaglia alla cretinaggine; se si fosse trattato del bardo, avrei vinto una dannazione d'oro. Toltomi il cuscino da sotto la testa, l'ho scaraventato contro la parete: al diavolo!
Certo era di vitale importanza sapere che volto avesse un'archivista immaginaria!
Se io fossi tanto stupido da non comprendere, allora mi sarebbe perdonato. Ma perseverare pur vedendo, questo è diabolico. Un brivido di freddo mi ha attraversato il corpo, alzandomi.
IL RITUALE
Una forza portentosa mi sbatte da una parte, solo per infrangersi sullo scoglio di un'altra forza, di uguale entità ma di direzione opposta. Appoggio la Tua mano destra sul mio petto e la mia mano destra sul Tuo, all'altezza del cuore. Liberi, possiamo sederci come unità androgina sul Trono della Città dalle Nove Porte, oppure separati, diventarne schiavi, possiamo ascendere ma possiamo anche discendere.
« Ricordati perciò di respirare. Uno, due, tre – inspira. Quattro, cinque, sei – espira. »
Fino a che i nostri respiri non si fondano in uno e l'espirazione con l'inspirazione diventi una cosa sola. Immobile, mi sento come schiacciato. In mezzo a due fuochi, il rischio è di rimanere ustionato.
« Di cosa hai paura? »
Con uno sforzo sovraumano mi impongo di non abbassare lo sguardo. Le fiamme nel frattempo hanno fatto saltare tutti i circuiti.
« Qual è il tuo limite? »
Per quel seno, un Re avrebbe abdicato al suo Regno. Non è difficile immaginare com'è cominciato il processo che ci condurrà alla fine dei Tempi. In quegl'occhi ho visto l'abisso, tutta la storia passata e futura del mondo. Ancora un passo, come da rituale.
« Di cosa hai bisogno? »
Di niente più mi importa – potrei essere già morto. Istanti senza tempo non scorrono, a me pare di essere il Tuo corpo che vibra e sussulta. Eppure non c'è più nemmeno contatto fisico. Sfioro qualcosa ad uno o due centrimetri da Te, che sembra interamente rivestirti. Non lo vedo eppure c'è: si percepisce e se ne osservano gli effetti.
« Io sono Te, Tu sei me, e non c'è fra di noi alcuna differenza. »
Queste parole cadono come un fulmine che in un solo attimo squarcia una quercia secolare, ma non segue un tuono: è silenzio di tomba. Ora una mano preme sul collo, l'altra afferra la testa per i capelli. Mi sembra che tutto il mio essere si riduca a quelle due mani.
« Ricordati di respirare. » mi ricordo di aver detto. Il respiro si è fuso, io non esisto più. „Io” non esiste più.
Ricordo quelle guance rosse, le labbra come se sorridessero, uno strano venticello e una musica celeste. Hanno tremato per quella le mura del Paradiso. Invece io no: ero lì, fermo immobile come l'Eterno. Come se fossimo eterni.
Quando finalmente hai riaperto gli occhi, l'ultima candela si stava lentamente spegnendo. La tempesta era passata, e il sole, vinta finalmente l'oscurità, si avviava tranquillo alla conquista della volta celeste.
Grazie, Signore, per tutto questo: infinitamente grazie e a buon rendere.
NOTE ESTIVE SU IMPRESSIONI INVERNALI
Un oceano di silenzio scorre lento / senza centro né principio. / Cosa avrei visto del mondo / senza questa luce / che
illumina i miei pensieri neri?” [F. Battiato]
Quando prendevo questi appunti, sullo specchio davanti a me pareva che ci fosse riflessa una scritta: „Rym”, vale a dire „Roma”. O era „Myr”?
2 reactions
1 From LeLamediSpadaccinoNero.blogspot.com - 28/04/2021, 14:13
era ora che ti ritagliassi uno spazio tutto tuo. Da anni traggo immensa ispirazione dalla tua saggezza. Complimenti per aver scritto chiaro e tondo "Annotazioni di un Estremista di Destra".
Un saluto Fraterno
2 From nachtigall - 28/04/2021, 14:25
Grazie Spada, un saluto!